È giusto nutrirci di latte? Sì, è scritto nel nostro DNA

Ad attestarlo è un “giudice” imparziale e quanto mai oggettivo: l’evoluzione del gene della lattasi

Bere latte fa bene? Come mai siamo gli unici mammiferi a cibarci di latte anche in età adulta? C’è correlazione tra consumo di latte e alcune malattie?
Da qualche anno, dopo che millenni nessuno si è posto dubbi e il latte ha pacificamente fatto parte della dieta di milioni e milioni di persone, queste e altre domande hanno iniziato a diffondersi.
Le risposte che si trovano, soprattutto nel web, sono le più varie (e talvolta strampalate) perché spesso frutto più di opinioni che di conoscenze.
Ma anche la scienza – che pur mostra i tanti risvolti nutrizionali positivi del latte – non dà formule sempre perfettamente univoche; una situazione peraltro ben nota a chi fa ricerca scientifica, ne conosce il metodo e sa che la strada per arrivare a risultati consolidati è tutt’altro che semplice e breve.

Non esiste dunque modo di avere qualche certezza?
Se per molte cose umane è così, nel caso del latte, un’informazione per dire con fondata evidenza se cibarsene sia per l’uomo utile e proficuo, esiste. E la si ritrova in una delle matrici più naturali e predittive: il nostro DNA.
In un articolo divulgativo – che è possibile leggere e scaricare in calce a questa news – il professor Paolo Ajmone Marsan, il professor Giuseppe Bertoni e il dottor Simone Morabito del Dipartimento di Scienze animali, della nutrizione e degli alimenti (Diana) e del Centro di riferimento agro-alimentare Romeo ed Enrica Invernizzi (Ircaf) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore spiegano il perché.

Aplotipi lunghi
In estrema sintesi, la questione verte nella presenza in alcune popolazioni umane, di “blocchi di geni” (aplotipi) nei quali traspaiono chiaramente i segni di un vantaggio evolutivo. E tra questi, c’è il gene che codifica la permanenza della lattasi nell’uomo adulto.
“La lattasi – scrivono i nostri autori – è l’enzima prodotto nell'intestino tenue che è responsabile della digestione del lattosio, lo zucchero del latte. Nella maggior parte dei mammiferi, incluso l'uomo, l'espressione del gene lattasi è regolata durante la crescita e cessa dopo lo svezzamento. Questo significa che gli adulti di solito non producono lattasi e non sono in grado di digerire il lattosio. Tuttavia, in alcune popolazioni umane, la produzione di lattasi non diminuisce dopo lo svezzamento, ma continua per tutta la vita”.

Una mutazione di 7500 anni fa
Ed è questo il punto. Nel corso dei millenni, precisamente circa 7500 anni fa, in alcune popolazioni –  certamente negli europei dove è documentata da studi recenti – è avvenuta una mutazione genetica che ha determinato la permanenza della lattasi oltre lo svezzamento. Una mutazione naturale, come infinite altre che incorrono nel DNA, che dunque apportava il “difetto” di mantenere la produzione di lattasi da parte dell’intestino umano anche in età adulta. In queste popolazioni già vigeva l’allevamento bovino come fonte di cibo e questa mutazione ha dunque permesso a quelle genti di nutrirsi di latte anche da adulti, senza incorrere nell’intolleranza da lattosio.

Il latte ha regalato un vantaggio evoluzionistico 
Ma tutto ciò non dice ancora se questa “novità” abbia giovato o meno a quelle popolazioni.
Ad approfondire questo aspetto è la genetica evoluzionistica. E torniamo così agli aplotipi. Gli studi ci dimostrano che quando, nel corso del tempo, un blocco di geni (un aplotipo, appunto) si diffonde rapidamente in una popolazione e rimane relativamente immodificato (della lunghezza originaria), ciò significa che è sottoposto a una selezione positiva. 
Allora, la conclusione non può essere che questa: come tutte le mutazioni, anche quella del gene della lattasi è con ogni probabilità avvenuta più volte nel corso dell’evoluzione dell’uomo e probabilmente anche di altri mammiferi. Ma quando questo è accaduto in una popolazione già dedita all’allevamento bovino, l’aver consentito a quelle persone di cibarsi di latte anche da adulti, ovvero di un alimento dalle numerose e notevoli qualità nutrizionali, ha notevolmente giovato a quella popolazione. E a testimoniarlo, ancora oggi, in mezzo a tante opinioni, c’è un fatto genetico oggettivo e inequivocabile: quell’aplotipo, che si è diffuso ed è rimasto relativamente intatto nel tempo.